Private label: oltre l’etichetta

La “bolla fooding” mi fa sempre tornare alla mente la scena di un film anni ’80: “Il Senso della Vita” geniale opera dei Monty Python.

Una scena grottesca, ma certamente anticipatrice e visionaria di una follia collettiva che avrebbe conquistato tutti i target, senza distinzioni socio-economiche, geografiche, culturali o demografiche.

Vittime o carnefici dell’interesse verso cibo, ingredienti e Chef lo siamo tutti, chi più chi meno. E in pochissimo tempo abbiamo trasformato il “credo” in una vera e propria religione, dividendoci in gruppi, sottogruppi, nicchie: tutti figli del dio Cibo e dello status d’accesso.

Saturi di ricette abbiamo rivolto l’attenzione all’estetica del cibo: hanno vinto quegli Chef e blogger che, per l’occasione, hanno rispolverato il moribondo star system, immortalando ingredienti sotto filtri, luci e composizioni alle quali è impossibile resistere. Le ricette erano solo una conseguenza.

Stimoli di grande effetto su milioni di persone desiderose di fare altrettanto soprattutto sui profili social, che impongono la necessità di fotografare il proprio credo in questo o quello stile, corrente o ramo culinario; quasi un momento eucaristico del preparare, servire, gustare e godere di ciò che si mangia e si offre ai propri invitati.

Ingredienti prima di tutto, dunque. E didascalie invisibili che sembravano dire: “Per la preparazione e l’impiattamento seguimi, sul blog o acquistando un mio corso di cucina, e il dio sarai tu”.

Mi colloco nella categoria degli osservatori del fenomeno. Ho iniziato 30 anni fa a parlare di ingredienti tipici, di preparazioni, di cotture, di tradizione e contemporaneità, di salute e qualità della vita: molto prima che tutto questo diventasse moda e bulimia.

La mia carriera inizia come pubblicitaria per Rex-Electrolux, negli anni ‘90.

Compresi presto che, per parlare delle prestazioni innovative di forni elettrici e piani cottura a induzione, sarebbe stato necessario ampliare le mie conoscenze di semplice buongustaia: cominciai un’auto-istruzione sulla cucina tradizionale mediterranea e le moderne interpretazioni, passando per segreti di preparazione, cottura, salvaguardia delle proprietà nutrizionali e organolettiche degli ingredienti. Bisognava fotografare il cibo mentre entrava o usciva dal forno; e, per affascinare i lettori dei tre (tre!!) magazine in edicola, era necessario l’intervento di un home-economist che facesse sembrare un branzino più vivo e brillante di quando sguazzava in mare.

Tutto ciò mi ha convinta di un fatto: la scelta e conoscenza degli ingredienti e del loro trattamento armonico durante le preparazioni rappresenta il 70% del successo di una ricetta. Il restante 30 è immaginazione, sperimentazione, allenamento tenace e… marketing del sogno. Il solito, benedetto marketing dei sogni.

MAGHI E INGREDIENTI, NON SOLO POZIONI

Pensateci: chi soggiorna in un agriturismo e consuma i suoi prodotti, al momento di andarsene, non resisterà alla tentazione di portarsi a casa le verdure sotto olio e il limoncello che gli ricorderanno sapori e profumi dei giorni nei quali è stato rilassato e felice. Difficile immaginarlo voltare uno dei vasetti alla ricerca della lista degli ingredienti: si fida di ciò che ha sperimentato.

La credibilità e l’affidabilità di ciò che porterà a casa saranno proporzionali alla qualità dell’esperienza che l’oste gli ha fatto vivere.

Il private label dell’ipotetico agriturismo Fattoria Felice è più convincente di qualunque campagna pubblicitaria, più credibile di qualunque testimonial hollywoodiano, più stimolante di qualsiasi promozione 6×2 messa a punto della Grande Distribuzione (dove invece vincerà sempre il rapporto qualità/prezzo).

Con il private label acquistiamo qualità della vita e certezze, autenticità e status di felice soddisfazione per il palato e per l’anima.

Stessa storia quando, a creare il marchio, sono Chef di indiscussa fama: qui i vasetti sono veri e propri gioielli in conserva dei loro piatti famosi che, con poche decine di euro, ti permettono di rivivere il sogno in versione low cost for long distances. Ma vale solo se effettivamente il ristorante dello Chef in questione è lontano da casa e se i prodotti sono stati sapientemente confezionati nonché distribuiti in concept store qualificati. Perché sogni e gioielli, si sa, non sono mai in vendita al supermercato.

Su quest’errore di fondo, vedo spesso girare in pista per anni, senza mai decollare, imprese che hanno avuto un’idea di business valida (franchising dedicati a una clientela di nicchia, vegana o crudista, per esempio), incapaci però di chiudere il cerchio del positioning complessivo, ciò che serve per fare di un’idea di business un progetto di successo.

L’idea buona viene spesso soffocata da inadeguata risposta alla domanda di status e di sogno (look&feel d’arredo sbagliati, naming osceni, totale mancanza di identità di brand e mediocre customer experience); inoltre politiche di prezzo troppo elevate rispetto all’offerta e linee di prodotti palesemente prive di valore aggiunto rispetto a prodotti analoghi acquistabili in un qualunque market bio-vegan-naturale.

Viaggiando in una stradina di campagna, sareste mai attratti da un cartello a led luminosi che vi invita ad acquistare “uova fresche di giornata”? E, nel centro di Milano, vi fermereste mai per acquistare uno smartphone di ultima generazione esposto nella vetrina di un negozio che ha i prezzi segnati a gessetto su tavolette di legno invecchiate?

Anche i vegani sognano.

E contano pecorelle dal pelo soffice e bianco, non illuminate a neon.

 

 

 

 

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