Pizzerie italiane o franchising stranieri?

La guerra della pizza e i nuovi bisogni dei consumatori

Tremate, tremate, le pizze americane sono arrivate: Domino’s pizza ha aggredito il mercato italiano. Se ne parla già da un po’, in realtà, visto che il primo punto vendita è sbarcato a Milano lo scorso ottobre e subito gli esperti del settore hanno drizzato le antenne, cercando di comprendere il significato della cosa.

Per i meno informati, stiamo parlando di una nota catena d’oltreoceano che si occupa di consegnare a domicilio quegli scenografici, grossi dischi di pasta lievitata stracolma di ingredienti e tagliata a spicchi, che vediamo sempre nelle nostre serie tv preferite.

Prima di emettere una qualche sentenza “tecnica” sul perché e il per come di certe scelte commerciali, abbiamo deciso di osservarne l’evoluzione, proponendo piccole riflessioni e ponendoci delle domande.

DESITA-BLOG-PIZZEoFRANCHISING3Come è successo con l’avvento di Starbucks, le posizioni spaziano da “finalmente, sono arrivati anche qui!” a “non hanno alcuna speranza di sopravvivere nel nostro tessuto culturale e gastronomico”.

Non possiamo effettuare previsioni precise, ma ci siamo chiesti quanto, oggi, alla luce di fenomeni completamente realizzati come la globalizzazione o l’esigenza di offrire ai consumatori “nuove avventure”, oltre che prodotti diversi, abbia senso stupirsi del fatto che un americano osi venire proprio in Italia a farci concorrenza con un prodotto inventato da noi.

Proviamo a ragionarci.

  • Il gusto personale dei clienti non si può discutere: i pizzaioli nostrani possono alzare tutti gli scudi del mondo sostenendo che la “nostra pizza” è migliore, più buona, più digeribile, più controllata, più sana, più tutto quello che vi pare (è vero), ma ci sarà certamente una fetta di mercato le cui papille risulteranno sensibili a quel sapore, a prescindere da qualsiasi considerazione sull’importanza del Made in Italy. E poi, parliamoci chiaro: basta andare a mangiare nel centro di qualsiasi città turistica per imbattersi in un “made in Italy” di infima qualità, con buona pace dei puristi.
  • Non consumiamo solo cibi, consumiamo esperienze: se le esigenze dei pubblici cambiano (millenials in testa) e i nostri imprenditori non sanno intercettarle e dare risposte rapide, è normale che si venga colonizzati, non tanto da un marchio, quanto da una “formula”. Sappiamo di italianissimi che rinunciano al cappuccino e cornetto di pasticceria del bar per ingurgitare dolci surgelati e brodaglie in bicchieri di carta, guidati dal piacere di sentirsi parte di un certo ambiente, di una certa “mentalità alimentare”, di una certa velocità di fruizione, della suggestione di un mondo lontano.
  • “I locali sono sempre pieni” – diceva qualcuno – eppure la consegna a domicilio sta spopolando: vuoi perché ci siamo impigriti e abbiamo tanta voglia di divano, vuoi perché “fa figo”, vuoi perché il nostro stile di vita non ci consente di trascorrere ore in cucina a preparare manicaretti per la cena con gli amici, le soluzioni che ci vengono a trovare direttamente a casa iniziano a piacere veramente tanto.

DESITA-BLOG-PIZZEoFRANCHISING5Pur di non spostarci di un centimetro, siamo disposti a pagare di più, mangiare una pietanza fredda e dal sapore così così?

Forse. Ma è proprio per risolvere questi “difetti del sistema” che i più lungimiranti strizzano l’occhio alle nuove tecnologie e mettono in campo una sperimentazione di consegna coi droni.

Realtà o fantascienza? Staremo a vedere.

Voi che ne pensate?

 

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