Formazione dei collaboratori nella ristorazione: lavorare sulle abitudini

Sentiamo spesso dire che lavorare nella ristorazione è una specie di vocazione mistica: una predisposizione interiore al contatto col pubblico e al sacrificio che rende alcuni adatti e altri molto meno.

Tuttavia, resteremmo sorpresi dal considerare in che modo certi colossi del food siano riusciti (e riescano ancora) a intervenire in maniera tanto profonda e potenziante sulle risorse umane da trasformare un “inadatto” in un “devoto”.

È il caso di Starbucks col suo programma di formazione.

Come racconta Charles Duhigg nel suo libro “la dittatura delle abitudini”, “Starbucks – come poche altre aziende – è riuscita a insegnare quel genere di abilità alla vita che la scuola, la famiglia e la comunità non sono riuscite ad offrire. Nel corso del primo anno, tutti i dipendenti trascorrono almeno cinquanta ore in aula, decine di ore a casa coi libri di Starbucks e altrettante coi tutor a loro assegnati. Il fulcro dell’intero progetto consiste nel dare grande importanza a un’abitudine fondamentale: la forza di volontà”.

Quando, alla fine degli anni novanta, l’azienda iniziò una massiccia fase di espansione, i dirigenti sapevano che l’imperativo sarebbe stato convincere i clienti a sborsare un minimo di quattro dollari. Per avere successo, non avevano altra scelta che puntare sulla capacità del personale di compiere questa magia.

Con l’obiettivo di mettere a punto un sistema di training veramente efficace, i direttori si misero a osservare con attenzione il proprio personale sul campo e realizzarono come non ci fossero particolari difetti nel servizio o nell’accoglienza, mentre la maggior parte, nonostante predisposizione e buone intenzioni, faceva fatica a gestire situazioni di stress, come una folla impaziente o un cliente maleducato.

Era necessario creare delle istruzioni che costituissero una specie di rete di protezione emotiva, ma non era sufficiente dire al ragazzino al bancone: “se capita questo, rispondi così” – tale approccio risultò fallimentare poiché, in stato confusionale, tendiamo a comportarci in modo istintivo, seguendo le nostre vecchie reazioni, più che le nuove indicazioni aziendali.

Starbucks doveva riuscire a creare delle specifiche abitudini organizzative applicate senza alcuna titubanza dall’intera rete di vendita, ma quelle abitudini dovevano essere “personalizzate” e “sentite” affinché fossero utilizzate spontaneamente.

Il primo step consisté nell’analizzare le risposte dei collaboratori “cosa ti viene naturale fare di fronte a un cliente furioso?” – “Mi spavento o mi arrabbio” – “Certo, è normale. Tuttavia questo peggiorerebbe la tua situazione. Perché non provi ad utilizzare questo spazio nel manuale per proporre una nuova reazione, solo tua, che potrebbe portarti maggiore beneficio?”

(Sì, i manuali di Starbucks sono per metà totalmente in bianco per consentire ad ogni lavoratore di creare la propria routine comportamentale, all’interno delle linee guida generali).

“Questo manuale ti aiuterà a immaginare situazioni spiacevoli e a pensare un piano per farvi fronte”.

L’azienda ha elaborato decine di routine comportamentali per ogni situazione-tipo (Ascoltiamo, Accogliamo, Ci diamo da fare – Ringrazia e Spiega – Connetti, Scopri e Rispondi), molte delle quali proposte direttamente dal basso, costruendo, così, non solo delle procedure standard, ma anche un senso di partecipazione e autonomia che ha mostrato implicazioni positive sulla concentrazione e l’energia dei team.

“Le persone vogliono avere il controllo della propria vita” e l’azienda avrebbe fatto la sua parte in questo processo di coinvolgimento e crescita che andava decisamente oltre la dimensione professionale.

Starbucks ha speso milioni di dollari per insegnare l’autodisciplina e il controllo delle emozioni, non semplicemente come fare il “frappuccino”, perché, come spiegò l’ex presidente Howard Behar: “noi non ci occupiamo di servire il caffè, ci occupiamo di persone che servono il caffè”.

 

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