Ok, facciamo un test.
Vi trovate in una delle vie più trafficate della vostra città, avete ancora diversi impegni e pensate sia il caso di fermarvi a mangiare un boccone. Vi guardate intorno: l’offerta è vasta. Pizzerie, gelaterie, sushi bar, ristorantini ammiccano da ogni angolo, alternando marchi noti e ultra pubblicizzati (quelli dei franchising e delle grandi catene, per intenderci) a soluzioni meno blasonate, dalla scarsa prevedibilità gustativa, ma con un look & feel meno artificiale, stereotipato, “di massa”.
Quale scegliereste? Già, l’eterno dilemma.
Un marchio noto può risultare rassicurante (e le abitudini sono durissime a morire) specie se non siamo in vena di sperimentazioni gastronomiche o economiche.
Anche per questo la formula del franchising è da sempre molto gettonata e le ricerche più recenti parlano di un mercato in crescita che, come ormai tutti sanno, offre delle ottime opportunità a fronte di un rischio d’impresa non così marcato.
Eppure, alzi la mano chi non ha mai pensato almeno una volta: “chissà che cosa ci mettono dentro quei panini” o “ma se la mia pizza la prepara un ragazzino con un apposito macchinario che fine fanno la genuinità e l’artigianalità?”
Senza contare che il consumatore contemporaneo potrebbe essere stufo di trovarsi a Milano, Dubai, Londra e non cogliere più nessuna differenza estetica, culinaria, territoriale.
Proprio per scongiurare un’errata percezione e curare, almeno in parte, questo imperante senso di appiattimento da globalizzazione, è necessario sviluppare una nuova cultura del franchising nella quale l’esigenza di standardizzazione non penalizzi il valore dell’unicità, anzi, lo esalti.
Questa nuova filosofia potrebbe partire da due capisaldi: