Ristorazione e customer experience: non cucinare il cervello, studialo!

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Avete notato che all’ingresso di tanti supermercati trovate frutta e verdura? E che, subito dopo essere entrati, volgete un primo sguardo a destra? Quelle che sembrano casualità o innocenti abitudini nascondono routine comportamentali che la psicologia della vendita approfondisce da sempre.

A rigor di logica, frutta e verdura non dovrebbero essere i primi prodotti a finire nel carrello: sono freschi, rischiano di avvizzire perfino prima dell’uscita dal supermarket! Eppure, numerosi studi dimostrano come iniziare le compere placando le pulsioni salutiste (ho già preso delle mele, sono una brava persona) aumenta le probabilità che, nel prosieguo della spesa, ci si conceda gratificazioni sotto forma di zuccheri e carboidrati.

Allo stesso modo, molti grandi magazzini posizionano proprio sul lato destro le merci con maggior ricarico.

Il tema della comprensione profonda delle abitudini di acquisto e, in generale, della customer experience a livello commerciale, è caldissimo e in costante evoluzione, specie da quando i supporti digitali hanno rimescolato le carte e messo a disposizione un’enorme mole di dati sui quali ragionare.

Inutile dire che numeri e percentuali, senza l’interpretazione di un esperto, servono a poco. Sapere che il 10% degli utenti di uno store ha iniziato a consumare una marca di caffè diversa dal solito non dice granché.

Al contrario, riuscire a stabilire che alcune nuove routine dipendono dal fatto che quei clienti si sono sposati o hanno divorziato o hanno cambiato casa, apre la strada all’invio (e alla visualizzazione) di promozioni mirate per la loro nuova “condizione”. Con relativo aumento del fatturato.

Nei progetti per la ristorazione, in particolare quella che ambisce ad uno sviluppo a catena (franchising o altra formula) va usato il medesimo approccio: aldilà degli accorgimenti tecnici sul dove posizionare un bancone o una macchina del caffè, diventa cruciale generare costrutti e interrelazioni sulla base di dati e nozioni di neuromarketing.

L’analisi dei comportamenti del cliente offline (fa fatica a trovare i tovaglioli? Il sistema di vendita è efficace? Si formano code?) dev’essere incrociata con quelli online (cosa lo attira? quali informazioni consulta? è sensibile alla “call to action”?) in modo da prendere decisioni mirate su menù e comunicazione (in che sequenza vanno messi i piatti? Con quali immagini? Quale font? Un’introduzione è necessaria?) sull’identità di marca e, ovviamente, sul design, intenso come espressione di valutazioni estetiche, ma, soprattutto, economiche (come in questo progetto).

Queste basi di partenza consentono di anticipare pregiudizi sul brand e sul prodotto (bias di conferma) per trasformarli in curiosità e ridurre le percezioni negative. Andrà sfruttato l’effetto “framing” (la tendenza di ognuno a operare scelte sulla base di una specifica cornice di significato) per rendere più interessanti e gradevoli grafiche, formati, perfino lo spessore delle vetrine!

Grande attenzione, poi, al “paradosso della scelta” (un’offerta ridondante scoraggia l’acquisto) e ai processi di identificazione (non voglio solo mangiare, ma essere parte di una filosofia). L’obiettivo non è manipolare il consumatore, ma costruire intorno alle sue aspettative – anche quelle inconsce – la migliore esperienza possibile. Quella che lo renderà felice.

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