Lo conosciamo tutti come “sogno americano”: quel mettersi le gambe in spalla e volare dall’altra parte del mondo a caccia di fortuna, ricchezza, futuro, (ri)partendo da zero. Ed è innegabile che per molti abbia funzionato. Ne sanno qualcosa i ristoratori e gli imprenditori che, mettendo a frutto le tradizioni di famiglia e il loro gusto tricolore, hanno costruito veri e propri imperi del cibo nel cuore di New York.
Eppure qualcosa sta cambiando anche lì.
Pare, infatti, che i costi di gestione di un ristorante in queste ricche zone stiano costringendo molti proprietari alla chiusura o alla fuga. Il problema principale? Gli affitti.
Un’indagine del New York Times ci restituisce l’immagine di una Grande Mela che costa più del doppio di San Francisco o Los Angeles, ad esempio. E, considerando che molti locali superano i 150 mq, si raggiungono rapidamente spese ragguardevoli, spesso insostenibili con gli indotti degli ultimi tempi.
Inoltre, non incoraggia molto appurare quanto i newyorkesi spendano per pasteggiare fuori casa (circa 1200 dollari l’anno, solo per il pranzo): la concorrenza è talmente elevata che il numero di avventori si disperde tra un carretto degli hot dog e un cartoccio di patatine fritte nel nuovo fast food all’angolo.
Se, a questi calcoli, aggiungiamo il costo del personale (a NY uno chef guadagna circa 50.000 dollari l’anno, mentre a San Francisco 32.000 e a Los Angeles 40.000), l’incidenza delle materie prime e la scelta di restare indipendenti, (senza essere assorbiti da grandi gruppi che lavorino su economie di scala), ecco che il quadro è completo.
Insomma, il sogno scricchiola un po’ nell’impatto con la recente realtà.
Eppure.
Sì, c’è un altro eppure, perché, nonostante questa prospettiva non proprio rosea, in moltissimi partirebbero oggi stesso pur di sfuggire ad un incubo nostrano ancora più spaventoso: la burocrazia.
Iscrizione alla camera di commercio, Inps, Inail, commercialista, notaio (se va costituita una società), certificato Haccp e relativi corsi di formazione obbligatori, iscrizione al Conai, canone per l’insegna, canone per occupazione di suolo pubblico, SIAE (se il locale ha radio o tv), verifica requisiti ambientali, certificato prevenzione, protezione e pronto soccorso, licenza per gli alcolici, obolo all’agenzia dogane per il possesso di un flipper o un biliardino, e non vi venisse in mente di non possedere un piano “sicurezza e coordinamento” in caso di ristrutturazione di locali: rischiate multe salatissime.
Probabilmente ci siamo dimenticati qualcosa e non abbiamo neanche approfondito le specificità dei territori e dei comuni.
Un groviglio di adempimenti, spesso incomprensibili, che, oltre a una bella spesa, comporta anche tempi tecnici da Paese incivile.
«La burocrazia ha lo straordinario potere di farti sentire stupido», ricorda Francesco Margiocco su La Stampa.
E a nessuno piace questa sensazione.
Qui siamo ben oltre le distorsioni di un mercato o il suo essere particolarmente esoso: non si fa neanche in tempo a considerare i costi dell’affitto, del personale, dei fornitori che già viene voglia di mandare tutto all’aria e scappare sul cucuzzolo di un monte e alimentarsi di radici e acqua piovana.
Perfino gli odiati cugini francesi, non distanti da noi, hanno vita più facile: per esempio, non esistono tasse sulle insegne o i déhors e i corsi per il certificato Hccp sono facoltativi (l’importate è che il locale sia a norma).
Perché, diciamocelo, un conto è confrontarsi in un libero mercato nel quale soccombi se non sei all’altezza o se le condizioni cambiano e non stai al passo, un altro è passare il tempo a far la guerra alle istituzioni per venti centimetri di “occupazione del suolo pubblico”. Con tutto il sacrosanto rispetto per le regole e il decoro urbano.
Fortunatamente, gli italiani, nel bene e nel male, sanno essere tosti e, chi fa impresa, nel food o in altri settori, dimostra ogni giorno una passione e una resilienza fuori dal comune.
Poi, per chi proprio volesse guardare lontano, ci sono sempre gli Emirati Arabi….
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